Sarà un Papa conservatore, dissero. È un Pastore tedesco, dissero con ironia. Non è affabile come Giovanni Paolo II, dissero da subito. È un Papa teologo, dissero i falsi pastoralisti. Sarà un Papa di transizione, dissero precocemente.
È un Papa moderno, dicono. È il Pastore tedesco, dicono con ammirazione. Ha stupito il mondo più di Giovanni Paolo II, dicono adesso. È un Papa amato dalla gente, dicono i pastoralisti. È un Papa che ha lasciato il segno nella storia, dicono ora.
Ad ascoltare quello che dissero e quello che dicono mi sembra di aver avuto da sempre due Papi. Eppure mi è difficile pensare che le ovazioni dei fedeli e i consensi del mondo per BXVI siano scaturiti soltanto dal gesto delle sue dimissioni. Sarebbe riduttivo ricordare nei libri di storia questo Pontefice in compagnia di coloro che hanno rinunciato al soglio di Pietro. La storia di ciascuno di noi è fatta di piccole e grandi esperienze, di cadute e di risurrezioni, di lacrime e sorrisi, che riassumendosi danno quello che siamo. E il Papa non è da meno. Il Papa è un uomo. E un Papa soffre, invecchia, non muore soltanto.
La sofferenza non è mai uguale. C’è quella che si esterna nel corpo e quella che attanaglia lo spirito: entrambi consumano l’uomo. Eppure, per la regola di San Tommaso, la sofferenza esteriore giustifica rinunce non consentite, invece, alla sofferenza interiore. Quanto si può misurare la sofferenza? Ma soprattutto chi può farlo?
Non io. Perciò mi limito a ringraziare BXVI per tutto il suo pontificato, per come, a poco a poco, mi ha mostrato cosa significhi essere servi di Dio e del suo popolo, rinunciando alle logiche di potere.
Lo ringrazio perché ha dato nuova luce al volto della Chiesa, rispolverando la sua bellezza, la sua genuinità, la sua affascinante semplicità.
Lo ringrazio perché mi ha dato modo di conoscere un uomo di Dio e cosa significa abbandonarsi a lui.
Lo ringrazio perché mi sento ancora più prete, ancora più cattolico, ancora più uomo.
Lo ringrazio perché continuerà a pregare per me.
E io per lui.