Ultimamente mi è stato detto di non avere la vocazione al sacerdozio ma alla politica, di non essere un prete vero ma uno che usa la tonaca per i riflettori. Tutto questo solo per aver chiesto una riflessione comune sul fatto che sul nostro territorio manca una formazione sociopolitica, apartitica, rivolta ai giovani. Poiché non è la prima volta che vengo invitato a «fare il prete e basta», sono andato a rivedermi alcuni documenti sul ruolo dei sacerdoti nei confronti della società e, in modo particolare della politica.

Ho ritrovato con piacere un articolo di Bartolomeo Sorge S.I., già direttore di Civiltà Cattolica, apparso nel 2008 sulla rivista Aggiornamenti sociali e di cui riporto ampi stralci per presentare una riflessione, pacata e oggettiva, che aiuti nella comprensione del rapporto fra la Chiesa, i sacerdoti e la politica.

L’editoriale di Sorge accoglieva l’invito di Sergio Romano che così scriveva sul Corriere della Sera del 14 marzo 2008: «I sacerdoti, quando affrontano troppo spregiudicatamente i temi della politica quotidiana, finiscono spesso per diventare i “cappellani” di un partito, di un movimento, di una corrente politica o sociale. Con il risultato che vengono corteggiati da coloro che sperano di servirsi delle loro parole e avversati da coloro che appartengono al campo opposto». Romano rispondeva ad un lettore del Corriere che aveva invitato Sorge, dopo alcune sue dichiarazioni a Famiglia Cristiana, a fare il «pastore del gregge».

Allora Sorge – ed io insieme con lui –  si fa questa domanda:

Può qualsiasi considerazione dei Pastori riguardante la politica essere presa come «interventismo ecclesiastico»? Certo, sconfinamenti sono sempre possibili e gli uomini di Chiesa dovranno guardarsi dal compierli; non per questo, però, possono rinunciare a offrire criteri etici e culturali che aiutino le coscienze a prendere posizione anche in ambito sociale e politico.

Innanzitutto bisogna far chiarezza sui termini. In un mondo sempre più mediato dai social, conoscere il significato delle parole che si usano è fondamentale per determinare la comprensione di ciò che si dice o si scrive. Partiamo dalle due parole chiavi: Chiesa e politica.

Quando si parla di «Chiesa» bisogna distinguere il duplice significato nel quale il termine viene usato. Nel linguaggio corrente, ci si riferisce anzitutto alla «Chiesa istituzione», costituita dal Papa, dai vescovi e dai sacerdoti, indicata anche con il termine di «Gerarchia» o di «Pastori». C’è però una seconda accezione, con la quale più esattamente si indica l’intera comunità dei battezzati (Pastori e fedeli laici insieme), unita nell’unico «Popolo di Dio». Pertanto, una cosa è il rapporto dell’istituzione ecclesiastica con la politica e un’altra, ben diversa, l’impegno politico dei fedeli laici, i quali, non meno dei Pastori, sono parte viva ed essenziale della Chiesa «Popolo di Dio».

Analogamente il termine «politica» può essere preso in un senso più ampio, come promozione socioculturale alla luce di una determinata visione dell’uomo e della società, oppure, in una accezione più ristretta, come «prassi» riferita all’attività dei partiti, del Governo, della Pubblica Amministrazione, ecc. In questo secondo caso ci si riferisce al programma delle cose da fare, alle opzioni concrete, che si pongono in termini più strettamente operativi, sulla base del mandato ricevuto o della carica ricoperta, che in una maniera o in un’altra si ispirano a una «cultura» o «filosofia» politica. I due modi di «fare politica» sono chiaramente articolati e intrecciati, ma, come vedremo, è importante non confonderli.

Fatta chiarezza sull’uso delle parole, bisogna tener presenti alcuni criteri all’interno dei quali far muovere la riflessione. Sono, a mio avviso, criteri fondamentali per non scadere nel qualunquismo e nei luoghi comuni.

  1. Per quanto concerne il rapporto tra Chiesa istituzione e politica, il Concilio Vaticano II stabilisce un criterio fondamentale: «La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso» (Gaudium et spes, n. 42). Tuttavia — spiega — missione «religiosa» non significa affatto disinteresse per la realtà sociale, e in particolare per l’ambito politico; indica piuttosto la prospettiva specifica che la Chiesa ha nei confronti della politica, rimanendo sul piano di un’etica ispirata dalla fede e, nello stesso tempo, razionalmente argomentabile non solo per i credenti. In altre parole, poiché la fede illumina il discorso sull’uomo, la Chiesa istituzione, evangelizzando, compie un servizio che tocca la vita politica intesa come promozione di un modo di presenza nella società (fatto di atteggiamenti interiori, di elaborazioni concettuali e di comportamenti), che sta a monte di ogni ricerca di soluzioni operative.
  2. Un secondo criterio è strettamente collegato al primo: la Chiesa in quanto istituzione si autoesclude dall’intervenire direttamente nella prassi politica in senso stretto, partitico. Non perché questa sia qualcosa di sconveniente o di «sporco», ma perché, nella sua universalità, la missione religiosa non può divenire «di parte» come è proprio di ogni scelta politica. Precisa Benedetto XVI: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (Deus caritas est, n. 28).
  3. Un terzo criterio, infine, riguarda i rapporti specifici tra la Chiesa e lo Stato: entrambe le istituzioni, nella chiara distinzione degli ambiti e nel rigoroso rispetto della reciproca autonomia, sono chiamate a collaborare in vista del bene comune. La Chiesa non può servirsi della politica a scopo religioso, né lo Stato può servirsi della religione a scopo politico; ciononostante, vi sono campi nei quali, in certa misura, le due realtà si compenetrano: per esempio, in quelli riguardanti i diversi aspetti della vita umana, la famiglia, il diritto dei genitori di scegliere liberamente la scuola e l’educazione per i figli.

Fatta questo lunga ma doverosa premessa sul significato esatto delle parole usate e sui criteri all’interno stiamo argomentando, veniamo al cuore della faccenda: i sacerdoti e la politica.

I criteri esposti, riguardanti la Chiesa istituzione, si riferiscono, ovviamente, anche al rapporto dei sacerdoti con la politica. Il Sinodo mondiale dei Vescovi del 1971, dopo aver ribadito nel suo documento su Il sacerdozio ministeriale (Parte prima, n. 7, e Parte seconda, n. 2) quanto già aveva detto il Concilio — cioè, che i sacerdoti, essendo «Pastori» e testimoni dell’Assoluto, si astengono da ogni coinvolgimento diretto nella prassi politica —, spiega, nel secondo documento da esso approvato su La giustizia nel mondo (Introduzione, n. 7), in che senso il loro ministero religioso può contribuire alla soluzione dei problemi umani e sociali. La ragione è — dice il documento — che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione: «L’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo». Senza sconfinare dal proprio ambito religioso, i presbiteri evangelizzando contribuiscono a dare un’anima etica alla politica.

Per questo motivo, continua Sorge,

i Pastori, certo, non possono tacere, ma devono parlare, insegnare ed esprimere giudizi anche su questioni sociali e politiche, offrendo il loro contributo per illuminare le intelligenze e formare le coscienze.Non si tratta, in questo caso, di «supplenza politica», ma di adempimento del proprio dovere pastorale. Accusarli, in simili casi, di «indebita ingerenza» è un deplorevole equivoco; esso nasce, per lo più, da mancanza di chiarezza di idee, ma spesso può essere favorito anche dall’assenza di un’azione politica competente e responsabile da parte dei fedeli laici.

Se di fronte a scelte difficili i laici non intervengono e i Pastori sono gli unici a pronunciarsi, la loro presa di posizione, per quanto legittima e doverosa, rischia di apparire una forma di «interventismo».

Allora bisognerebbe chiedere a quanti ritengono inopportuno il commento di un prete alle dichiarazioni di un politico:

dal momento che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione, perché i sacerdoti dovrebbero rinunciare a incoraggiare la «buona politica», a formare una classe dirigente onesta e professionalmente capace di mediare in scelte operative condivisibili i criteri che la fede ispira? Perché dovrebbero tacere di fronte a comportamenti politici moralmente inaccettabili? Perché, essendo tenuti a orientare le coscienze, dovrebbero rinunciare a giudicare della corrispondenza o meno di una legge con i valori cristiani e con l’insegnamento del Magistero? Che altro fa la Dottrina sociale della Chiesa? La fede non può non avere un impatto sulla società e sulla sfera politica.

Concludendo. Certo, gli uomini di Chiesa possono sbagliare e scegliere forme di intervento non convenienti o cedere alla tentazione di indebiti «collateralismi» politici; e ciò va assolutamente evitato. Tuttavia, la natura religiosa della missione della Chiesa non comporta affatto che i sacerdoti «si chiudano in sacrestia», come vorrebbe una residua vecchia cultura liberale, dura a morire, sebbene superata dalla concezione moderna di laicità. È compito dei sacerdoti, invece, «uscire dal tempio» e portare il Vangelo là dove l’uomo vive, si forma, lavora, soffre e s’interroga, condividendone «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» (Gaudium et spes, n. 1). Questo non è «interventismo ecclesiastico». Non nuoce alla Chiesa, né al «profilo spirituale» dei sacerdoti.

Così concludeva Sorge e, ovviamente, mi trovo d’accordo su tutto, tranne che sull’ottimismo mostrato nel ritenere superata la cultura liberale a favore di una concezione moderna di laicità. Credo che su questo, almeno in Italia, ci sia ancora tanto da fare, soprattutto attraverso la formazione delle nuove generazioni e lo sviluppo di una cultura plurale.

Posted by:don Ivan Licinio

Classe 1983, sacerdote della Prelatura territoriale di Pompei dal 2011. Attualmente Vice Rettore del Pontificio Santuario della Beata Maria Vergine del Santo Rosario e Incaricato del Servizio per la Pastorale Giovanile. Autore di diverse pubblicazioni, il mio ultimo libro è "Se anche la fede è tra le Stranger Things" - Una serie TV per ogni stagione della gioventù, edito da Effatà editrice.

Una risposta a "Facesse il prete"

  1. Forse la perdita delle anime, e delle presenza di queste nelle chiese, è dovuta al fatto che i preti, e il Papa in primis, si son messi a dare giudizi su certe questioni poco religiose. Io personalmente non sono cattolica. Ma mi è capitato di aprire Famiglia Cristiana e trovarci articoli di tantissimi argomenti e poca religione. Ascoltare Radio Maria e sentir parlare di politica invece che ascoltare vite dei santi e preghiere. Mi sembra che la religione abbia pensato che mettersi a fare altre cose sarebbe stato utile per avvicinare le persone. Ma invece le persone le hanno allontanate. Inoltre se un Papa invece di parlare di Dio parla dei profughi ha perso tanti punti. Se io credessi in Dio vorrei ascoltare solo parole che riguardano lui e non altre cose. Del resto non si dice che l’amore per Dio è più forte di quello umano? E dunque chi preferirebbe ascoltare altre storie e non la storia di Dio? Personalmente ho trovato molta ignoranza tra i cattolici ( quasi tutti non praticanti) che si son stupiti che io possa conoscere la Bibbia bene senza aver avuto begli esempi in famiglia. Ma sinceramente mi son cadute le braccia vedendo che ormai si parla di tutto tranne che di Dio. Se persino voi preti discutete di altro, non è che critico questo, ma evidentemente non è il modo migliore per testimoniare un Dio che richiede amore assoluto. Ci son stati preti impegnati nel sociale e ben venga. Ma meglio i fatti che le parole. Ci sono tanti ambiti in cui c’è bisogno di amore e voi preti potete dare il vostro contributo. Se poi ambite a star seduti al parlamento allora forse io mi farei qualche domanda sulla vocazione….ma non credo sia il suo caso. Avere un’opinione politica è lecito e ne avete tutto il diritto. Ma Dio è sempre sopra tutto e tale deve rimanere. 😊

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