Ultimamente, mio malgrado, mi sono ritrovato al centro dell’attenzione mediatica nazionale per un mio post, ammetto forte, su un commento dell’on. Matteo Salvini riguardo la triste vicenda delle molestie subite da un’operatrice da parte di un immigrato in un centro di accoglienza nel napoletano. Nel mio commento ero in disaccordo con il segretario della Lega sulla proposta di condannare alla castrazione chimica chi, immigrato o italiano, si macchi del reato di stupro. Per queste persone, considerate colpevoli dopo un regolare processo, c’è la pena detentiva, e introdurre la castrazione chimica nel nostro ordinamento penale non reputo renda il nostro Paese più civile. Questione di opinioni.
Detto questo, dopo essere passato sui media per il prete anti Salvini o come il difensore degli stupratori, ho ricevuto migliaia di commenti e, fra una minaccia di morte e un’espressione di solidarietà, ce n’erano tanti che mi etichettavano come prete comunista e mi invitavano a non fare politica, come se fare politica fosse appannaggio di pochi e non diritto di tutti. Poiché non è la prima volta che vengo accusato di fare politica e che vengo invitato a «fare il prete e basta», sono andato a rivedermi alcuni documenti sul ruolo dei sacerdoti nei confronti della società e, in modo particolare della politica.
Ho ritrovato con piacere un articolo di Bartolomeo Sorge S.I., già direttore di Civiltà Cattolica, apparso nel 2008 sulla rivista Aggiornamenti sociali e di cui riporto ampi stralci per presentare una riflessione, pacata e oggettiva, che aiuti nella comprensione di un problema molto attuale nel nostro Paese: il rapporto fra la Chiesa, i sacerdoti e la politica.
L’editoriale di Sorge accoglieva l’invito di Sergio Romano che così scriveva sul Corriere della Sera del 14 marzo 2008: «I sacerdoti, quando affrontano troppo spregiudicatamente i temi della politica quotidiana, finiscono spesso per diventare i “cappellani” di un partito, di un movimento, di una corrente politica o sociale. Con il risultato che vengono corteggiati da coloro che sperano di servirsi delle loro parole e avversati da coloro che appartengono al campo opposto». Romano rispondeva ad un lettore del Corriere che aveva invitato Sorge, dopo alcune sue dichiarazioni a Famiglia Cristiana, a fare il «pastore del gregge».
Allora Sorge – ed io insieme con lui – si fa questa domanda:
Può qualsiasi considerazione dei Pastori riguardante la politica essere presa come «interventismo ecclesiastico»? Certo, sconfinamenti sono sempre possibili e gli uomini di Chiesa dovranno guardarsi dal compierli; non per questo, però, possono rinunciare a offrire criteri etici e culturali che aiutino le coscienze a prendere posizione anche in ambito sociale e politico.
Innanzitutto bisogna far chiarezza sui termini. In un mondo sempre più mediato dai social, conoscere il significato delle parole che si usano è fondamentale per determinare la comprensione di ciò che si dice o si scrive. Partiamo dalle due parole chiavi: Chiesa e politica.
Quando si parla di «Chiesa» bisogna distinguere il duplice significato nel quale il termine viene usato. Nel linguaggio corrente, ci si riferisce anzitutto alla «Chiesa istituzione», costituita dal Papa, dai vescovi e dai sacerdoti, indicata anche con il termine di «Gerarchia» o di «Pastori». C’è però una seconda accezione, con la quale più esattamente si indica l’intera comunità dei battezzati (Pastori e fedeli laici insieme), unita nell’unico «Popolo di Dio». Pertanto, una cosa è il rapporto dell’istituzione ecclesiastica con la politica e un’altra, ben diversa, l’impegno politico dei fedeli laici, i quali, non meno dei Pastori, sono parte viva ed essenziale della Chiesa «Popolo di Dio».
Analogamente il termine «politica» può essere preso in un senso più ampio, come promozione socioculturale alla luce di una determinata visione dell’uomo e della società, oppure, in una accezione più ristretta, come «prassi» riferita all’attività dei partiti, del Governo, della Pubblica Amministrazione, ecc. In questo secondo caso ci si riferisce al programma delle cose da fare, alle opzioni concrete, che si pongono in termini più strettamente operativi, sulla base del mandato ricevuto o della carica ricoperta, che in una maniera o in un’altra si ispirano a una «cultura» o «filosofia» politica. I due modi di «fare politica» sono chiaramente articolati e intrecciati, ma, come vedremo, è importante non confonderli.
Fatta chiarezza sull’uso delle parole, bisogna tener presenti alcuni criteri all’interno dei quali far muovere la riflessione. Sono, a mio avviso, criteri fondamentali per non scadere nel qualunquismo e nei luoghi comuni.
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Per quanto concerne il rapporto tra Chiesa istituzione e politica, il Concilio Vaticano II stabilisce un criterio fondamentale: «La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso» (Gaudium et spes, n. 42). Tuttavia — spiega — missione «religiosa» non significa affatto disinteresse per la realtà sociale, e in particolare per l’ambito politico; indica piuttosto la prospettiva specifica che la Chiesa ha nei confronti della politica, rimanendo sul piano di un’etica ispirata dalla fede e, nello stesso tempo, razionalmente argomentabile non solo per i credenti. In altre parole, poiché la fede illumina il discorso sull’uomo, la Chiesa istituzione, evangelizzando, compie un servizio che tocca la vita politica intesa come promozione di un modo di presenza nella società (fatto di atteggiamenti interiori, di elaborazioni concettuali e di comportamenti), che sta a monte di ogni ricerca di soluzioni operative.
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Un secondo criterio è strettamente collegato al primo: la Chiesa in quanto istituzione si autoesclude dall’intervenire direttamente nella prassi politica in senso stretto, partitico. Non perché questa sia qualcosa di sconveniente o di «sporco», ma perché, nella sua universalità, la missione religiosa non può divenire «di parte» come è proprio di ogni scelta politica. Precisa Benedetto XVI: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (Deus caritas est, n. 28).
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Un terzo criterio, infine, riguarda i rapporti specifici tra la Chiesa e lo Stato: entrambe le istituzioni, nella chiara distinzione degli ambiti e nel rigoroso rispetto della reciproca autonomia, sono chiamate a collaborare in vista del bene comune. La Chiesa non può servirsi della politica a scopo religioso, né lo Stato può servirsi della religione a scopo politico; ciononostante, vi sono campi nei quali, in certa misura, le due realtà si compenetrano: per esempio, in quelli riguardanti i diversi aspetti della vita umana, la famiglia, il diritto dei genitori di scegliere liberamente la scuola e l’educazione per i figli.
Fatta questo lunga ma doverosa premessa sul significato esatto delle parole usate e sui criteri all’interno stiamo argomentando, veniamo al cuore della faccenda: i sacerdoti e la politica.
I criteri esposti, riguardanti la Chiesa istituzione, si riferiscono, ovviamente, anche al rapporto dei sacerdoti con la politica. Il Sinodo mondiale dei Vescovi del 1971, dopo aver ribadito nel suo documento su Il sacerdozio ministeriale (Parte prima, n. 7, e Parte seconda, n. 2) quanto già aveva detto il Concilio — cioè, che i sacerdoti, essendo «Pastori» e testimoni dell’Assoluto, si astengono da ogni coinvolgimento diretto nella prassi politica —, spiega, nel secondo documento da esso approvato su La giustizia nel mondo (Introduzione, n. 7), in che senso il loro ministero religioso può contribuire alla soluzione dei problemi umani e sociali. La ragione è — dice il documento — che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione: «L’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo». Senza sconfinare dal proprio ambito religioso, i presbiteri evangelizzando contribuiscono a dare un’anima etica alla politica.
Per questo motivo, continua Sorge,
i Pastori, certo, non possono tacere, ma devono parlare, insegnare ed esprimere giudizi anche su questioni sociali e politiche, offrendo il loro contributo per illuminare le intelligenze e formare le coscienze.Non si tratta, in questo caso, di «supplenza politica», ma di adempimento del proprio dovere pastorale. Accusarli, in simili casi, di «indebita ingerenza» è un deplorevole equivoco; esso nasce, per lo più, da mancanza di chiarezza di idee, ma spesso può essere favorito anche dall’assenza di un’azione politica competente e responsabile da parte dei fedeli laici.
Se di fronte a scelte difficili i laici non intervengono e i Pastori sono gli unici a pronunciarsi, la loro presa di posizione, per quanto legittima e doverosa, rischia di apparire una forma di «interventismo».
Allora bisognerebbe chiedere a quanti ritengono inopportuno il commento di un prete alle dichiarazioni di un politico:
dal momento che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione, perché i sacerdoti dovrebbero rinunciare a incoraggiare la «buona politica», a formare una classe dirigente onesta e professionalmente capace di mediare in scelte operative condivisibili i criteri che la fede ispira? Perché dovrebbero tacere di fronte a comportamenti politici moralmente inaccettabili? Perché, essendo tenuti a orientare le coscienze, dovrebbero rinunciare a giudicare della corrispondenza o meno di una legge con i valori cristiani e con l’insegnamento del Magistero? Che altro fa la Dottrina sociale della Chiesa? La fede non può non avere un impatto sulla società e sulla sfera politica.
Concludendo. Certo, gli uomini di Chiesa possono sbagliare e scegliere forme di intervento non convenienti o cedere alla tentazione di indebiti «collateralismi» politici; e ciò va assolutamente evitato. Tuttavia, la natura religiosa della missione della Chiesa non comporta affatto che i sacerdoti «si chiudano in sacrestia», come vorrebbe una residua vecchia cultura liberale, dura a morire, sebbene superata dalla concezione moderna di laicità. È compito dei sacerdoti, invece, «uscire dal tempio» e portare il Vangelo là dove l’uomo vive, si forma, lavora, soffre e s’interroga, condividendone «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» (Gaudium et spes, n. 1). Questo non è «interventismo ecclesiastico». Non nuoce alla Chiesa, né al «profilo spirituale» dei sacerdoti.
Così concludeva Sorge e, ovviamente, mi trovo d’accordo su tutto, tranne che sull’ottimismo mostrato nel ritenere superata la cultura liberale a favore di una concezione moderna di laicità. Credo che su questo, almeno in Italia, ci sia ancora tanto da fare, soprattutto attraverso la formazione delle nuove generazioni e lo sviluppo di una cultura plurale.
IN PROFONDITA’
di Fausto Corsetti
Ammettiamolo: abbiamo un debole per quelli che sanno parlare. Il dono della parola ci affascina. Al punto che, spesso, quasi non ci importa quello che viene detto. Gli affabulatori, i funamboli di ardite metafore, i parolai sono capaci di farci cambiare idea, stravolgere le nostre convinzioni. Una bella frase, il giusto tono di voce, una mimica vivace et voilà, il gioco è fatto.
Quanta leggerezza, superficialità in giro! Nei giornali, alla radio, in televisione, nei piccoli schermi saltellati da dita impazienti, nei contesti più diversi della vita quotidiana.
C’è, in tutti gli uomini, una superficie e una profondità. La superficie è piatta e uguale, la profondità un abisso.
Viviamo spesso in superficie, nel mondo della banalità, del “si dice”, della chiacchiera, del distrarsi, del ripetuto, dove non ci sono emozioni ma, al massimo, sorpresa o curiosità, talvolta soltanto pettegolezzo.
Possiamo restare giorni e giorni incollati al televisore, guardare tutti i talk show, tutti i dibattiti politici, tutti gli incontri salottieri, e non allontanarci un istante dalla superficie. Possiamo perfino andare in vacanza, fare affari restando in superficie.
Eppure, è strano, non poche sono le persone attratte dalla profondità.
Alcuni, ad esempio, dicono di voler provare delle emozioni forti, adrenaliniche, magari correndo in automobile, praticando attività sportive estreme oppure cimentandosi in prove “no limits”: cercano qualcosa che sta al di là.
Non è detto che la trovino, forse la trovano per un istante e devono perciò ripetere l’esperienza estrema, finché anche questa non si usura, non perde potere e novità.
Eppure tutti, ogni tanto, siamo condotti sull’abisso della profondità quando qualcosa scuote i fondamenti della nostra esistenza.
Quando siamo impegnati in una lotta disperata per ottenere un risultato, per superare una dura prova e ci riusciamo. E proviamo un senso di immensa esultanza, il momento di “gloria” che potremo ricordare. Oppure, sul versante negativo, quando muore una persona che ci è cara o ci ammaliamo di una malattia di cui temiamo gli esiti e ripercorriamo, riguardiamo con occhi diversi tutti i nostri rapporti, tutta la nostra vita.
Distinguiamo, allora, ciò che è essenziale da ciò che essenziale non è, la superficie dalla profondità. Capiamo che la profondità è sacra.
E, di più: accade di incontrarla quando ci innamoriamo, quando il nostro animo si dilata e diventa capace di emozioni, di pensieri tanto più grandi di noi stessi che vorremmo abbracciare il mondo e fonderci con esso.
Afferrati dall’amore, possiamo essere felici solo con chi amiamo e se ci distraiamo, se preferiamo altre compagnie o altre cose, la nostra unicità si incrina, si degrada. L’amore è esigente. Tutte le cose perfette richiedono una concentrazione totale: il compositore è totalmente assorbito dalla sua musica, lo scrittore dal suo romanzo.
Sicuro, c’è un’altra strada verso la profondità: l’arte, la grandissima arte.
Ci sono dei libri, dei romanzi, dei film, dei brani musicali, talvolta delle opere di pensiero, che invadono il nostro spirito e sembrano sul punto di farlo esplodere tanto ci apriamo al mondo, agli altri, a noi stessi: vediamo, così, qualcosa della nostra essenza, di cosa potremmo essere.
Allora il nostro abituale modo di vivere ci sembra un vestito vecchio, abbandonato in un angolo di una stanza.
Non è facile riconoscere il respiro profondo della speranza che trascende la provvisorietà o l’oscurità del quotidiano. Spesso il futuro intimorisce o quantomeno preoccupa. Eppure, la vita si distende nella ferialità, nel succedersi instancabile di piccoli avvenimenti, di speranze nuove, una successiva all’altra.
Nella consapevolezza dei giorni, si illuminano gli abissi dell’anima, si alimentano di colori mai visti, di promesse coltivate, di parole gelosamente custodite nel silenzio: chi ha visto sorgere il sole può sperare, anche in piena notte, che l’indomani torni a brillare il giorno.
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