La recente beatificazione del grande Papa Paolo VI (19 ottobre), mi ha riportato alla mente un altro giorno altrettanto solenne.
14 dicembre 2003. Domenica sera. Sono in piedi davanti all’altare della Cappella del Seminario Maggiore di Napoli. Insieme con me ci sono altri 13 ragazzi. Ci guardano le spalle le famiglie e tutti quelli che sarebbero diventati la nostra nuova famiglia.
In mano ho questo cartoncino giallo con una cornice floreale verde. Non è proprio bello da vedere, ma ci viene chiesto di leggere insieme il testo che c’è al centro:
La chiamata di Cristo è per i forti;
è per i ribelli alla mediocrità
e alla viltà della vita comoda ed insignificante;
è per quelli che ancora conservano il senso del Vangelo
e sentono il dovere di rigenerare la vita ecclesiale
pagando di persona e portando la Croce.
Così iniziava il mio primo giorno in Seminario. Per sei anni ogni giornata è stata accompagnata da questa frase di Paolo VI che una lapide posta all’ingresso della Cappella maggiore ricordava ad ogni seminarista.
Conservo ancora quel cartoncino giallo e, nonostante da giallo sia diventato canarino, lo tengo ancora in bella mostra insieme ai ricordi più cari.
Dopo tre anni di sacerdozio rileggerlo mi da sempre tanta forza, ma soprattutto mi meraviglia la straordinaria attualità di quella frase estrapolata da un Messaggio del Papa in occasione della IV Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni del 1967.
La chiamata di Cristo è davvero per i forti, per i forti di cuore.
Per quelli che devono essere forti nel momento del dolore, per quelli che devono dare forza di fronte alla morte e a tutti i suoi perché. Per quelli che devono conservare la forza, nonostante tutto.
La chiamata di Cristo è per i ribelli alla mediocrità nella quale anche la nostra stessa azione pastorale molte volte scade. La vita comoda ed insignificante è una viltà per chi ha scelto Cristo perché significa accontentarsi, volare basso, non avere il coraggio di osare e usare la forza della Spirito Santo ricevuto, nuovamente, nel giorno dell’ordinazione sacerdotale.
La Chiesa, continua il beato Paolo VI nel suo messaggio,
manda dei seguaci di Cristo, che a Lui danno tutto; manda dei giovani pieni di fuoco e di fantasia, che hanno intuito la più alta definizione della vita: un’avventura d’amore divino; manda degli umili eroi che credono nello Spirito Santo e che per la Chiesa di Cristo, come Cristo, sono pronti a dare la vita.
Quanto è triste vedere, invece, che alcuni fondano la loro vita sacerdotale su quei primi posti e sui saluti nelle piazze che i farisei gli hanno lasciato in eredità.
Conservare il senso del Vangelo significa, perciò, non dimenticare mai di essere stati mandati per servire e non per essere serviti, di ricordarci sempre che non siamo stati noi a scegliere Cristo ma Cristo ha scelto noi perché, nonostante i nostri limiti, potessimo portare frutti di bontà e di misericordia. Conservare il senso del Vangelo vuol dire seminare l’amore e la consolazione di Dio nel cuore degli uomini, soprattutto degli ultimi. Significa farsi, ogni giorno, come il pane spezzato e dato a tutti che, ogni giorno, consacriamo nella celebrazione della Messa. Infine, per conservare il senso del Vangelo non dobbiamo mai smettere di credere nella Speranza che Gesù ci ha donato con il sacrificio della sua vita. Bisogna sempre insegnare la Speranza. Facciamo tanti corsi nelle nostre Parrocchie, perché non pensare ad uno in preparazione alla Speranza? D’altronde, mi disse una volta un giovane ateo, “la speranza è il prodotto che la vostra azienda più sa vendere”.
Ecco perché bisogna rigenerare la vita ecclesiale ogni volta: per non sembrare un’azienda: più attenta ai capitali piuttosto che ai suoi “clienti” (sempre citando il giovane amico ateo); più attenta alla salvezza dell’economia piuttosto che all’economia della salvezza.
Rigenerare non significa cambiare ma ridare nuovamente vita. Nel giorno del nostro Battesimo siamo stati generati a vita nuova dall’acqua e dallo Spirito Santo. Fuori non siamo cambiati di una virgola, ma dentro è come se fossimo stati partoriti di nuovo. La vita ecclesiale va rigenerata prima dal di dentro, nella sua forma mentis, nelle sue strutture, nei suoi stili, nella sua missione, e poi al di fuori nel modo in cui si mostra al cuore del mondo.
Bisognerebbe ridare vita a quella Chiesa che ritroviamo negli Atti degli Apostoli e che Papa Francesco sta cercando di rivisitare.
Non possiamo presentarci come Ecclesia, cioè assemblea unita, se ancora tra preti della stessa Diocesi non ci si mette d’accordo sui nulla osta per accedere ai Sacramenti o su un’azione pastorale comune piuttosto che quella del proprio orticello parrocchiale. Ancora nessun martirologio, purtroppo, ricorda i martiri della comunione ecclesiale.
Bisogna pagare di persona e accettare la croce. E questo Paolo VI lo sapeva bene. Quanta autobiografia in questo rigo! Lui che, con non poche difficoltà, ha dovuto tenere saldo il timone della Chiesa dopo la grande spinta data dal vento di rinnovamento del Concilio Vaticano II.
Più umilmente, dal basso dei miei pochi anni di sacerdozio, ho sperimentato spesso la croce dell’incomprensione e dell’invidia. “Bisogna pagare di persona” vuol dire metterci la faccia nelle cose che si fanno, giocarsi tutta la vita, prendersi le proprie responsabilità e non delegare agli altri. Ma mettersi in prima linea, con tutti i propri limiti, significa spesso pagare di persona con l’isolamento e con l’etichetta di “salvatore della patria”, cosa comune fra i giovani preti.
Tuttavia questo era scritto, neanche tanto in piccolo, nel contratto che abbiamo firmato con la faccia a terra nel giorno della nostra ordinazione sacerdotale. Personalmente, – confesso il mio peccato – ignorando le rubriche liturgiche, scelsi di stendermi a terra con le braccia allargate piuttosto che sotto la fronte. Mi servì a comprendere ancora meglio il passo che stavo facendo e a dare un segnale a Dio: guarda che lo so che senza la croce il mio ministero non porterà frutto.
Volevo solo riportare alla mente, in occasione della sua beatificazione, quel testo di Paolo VI consegnatomi in Seminario, e invece, come sempre, mi sono fatto prendere la mano sulla tastiera. Vi chiedo scusa per il tempo che vi ho rubato e, se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui a leggermi, vi ringrazio per aver condiviso con me ricordi e considerazioni del mio cuore!