Quando sono partito pensavo di essere forte.
Auschwitz era uno dei motivi principali che mi hanno convinto a mettermi in viaggio per la Polonia. Giunto il giorno della visita, pensavo di essere forte, di poter affrontare quel luogo con rispetto e con un sano distacco emotivo, ma varcato quel tragico cancello tutto è cambiato.
Innanzitutto il silenzio di quel luogo di morte è talmente assordante che quasi riesci ad ascoltare la vita delle migliaia di persone che lo hanno affollato. Sì perché Auschwitz è il luogo per eccellenza del paradosso. Un paradosso che si palesa già nella frase famosa e beffarda allo stesso tempo posta all’ingresso del Campo: “Arbeit macht frei – il lavoro rende liberi”.
Il paradosso di un’umanità che per migliorarsi, per raggiungere il suo ipotetico grado perfetto, ha completamente smarrito il senso stesso dell’umanità, oltrepassando ogni umana logica e sconfinando, semplicemente, nel male più assoluto. Il paradosso dei tanti sopravvissuti che, da uomini e donne ormai liberi, non si sono mai liberati dall’offesa alla loro dignità e dal peso dei ricordi, trovando nel suicidio l’unica autentica liberazione .
Pensavo di essere forte, ma dinanzi alla lunghissima teca contenente le migliaia e migliaia di capelli di uomini, donne e bambini, ho pianto. Ho pianto con gli occhi ma ho pianto di più con il cuore. Mi ripetevo: non è possibile, non possiamo aver fatto questo. Alla stirpe degli uomini appartengono Michelangelo, Dante, Leonardo, Madre Teresa.. come abbiamo potuto ridurci così?
Mi è venuto in mente Primo Levi con il suo “Se questo è un uomo” e solo allora ho compreso davvero cosa intendesse dire. Non può essere uomo chi fa certe cose. Non è uomo chi le escogita. Non è uomo chi sa ma preferisce vivere tranquillo, magari guadagnandoci pure, come nel caso dei tessili che fabbricavano asciugamani e calzini proprio con quei capelli.
Non è uomo chi, ancora oggi, ha il coraggio di negare. Non è uomo chi, seppur ideologicamente, ripropone similitudini e atteggiamenti che offendono una parte dell’umanità e si indirizzano verso l’odio e la violenza. Non è uomo chi crede di essere superiore all’altro dimenticando di essere creatura e non creatore.
Prima di arrivare al muro delle esecuzioni e ai forni crematori costruiti da una “normale” ditta a conduzione familiare, c’è un corridoio in una delle baracche in muratura lungo il quale sono state affisse le foto di tantissimi deportati. Uomini e donne con il capo rasato, gli occhi spenti e le labbra tirate. Mentre lo attraversi sembrano animarsi e puoi sentire distintamente due voci che si rincorrono e s’incrociano: “Dov’eri?” e “Non dimenticarmi”.. Alla prima non sai che rispondere, ma la seconda è un impegno morale che devi prendere. L’unico modo per non rendere vana la morte di 1.100.000 uomini, donne e bambini, che non erano più considerati persone ma cose, è proprio quello di ricordare, di impegnarsi a sensibilizzare perché ciò che è accaduto ad Aushwitz non avvenga mai più. Credo che le scuole superiori del mondo dovrebbero prevederlo come viaggio d’istruzione obbligatorio e chi non c’è stato ancora debba andarci almeno una volta nella vita, come una sorta di pellegrinaggio laico di precetto.
In conclusione, rifacendomi ancora a Primo Levi, è verità che non è stato ancora inventato un linguaggio capace di poter trasmettere ciò che è avvenuto ad Auschwitz e nei campi figli; i vocaboli fame o freddo, ad esempio, non saranno mai in grado di rappresentare completamente ciò che davvero hanno provato quegli uomini, quelle donne e quei bambini. Non ci sono parole adatte ma c’è il dovere di raccontare e tramandare, in qualche modo, ciò che si è visto e sentito in quella tragica tomba dell’umanità.
Io ci ho provato.