Ma che c’abbiamo tutti contro la solitudine?

Questa mania quasi ossessiva di avere sempre persone intorno, di essere sempre legati con tutti, cerchie, followers, contatti, amici di Fb, liste, elenchi, gruppi…

Perennemente collegati ad Internet siamo in compagnia del mondo. Tutti sanno dove mi trovo adesso, che sto facendo e che cosa avrò intenzione di fare tra due minuti perché se non lo twitto, pubblico, condivido sembra che io non esista quasi..

Non che sia contrario ai social, ovviamente, (visto che mi state leggendo su un blog!) ma dico: cosa c’è di sbagliato in un po’ di solitudine gratuita ogni tanto?
Noto in giro che c’è la paura di restare soli. Lo capisco. Lo capisco nel malato, nell’anziano, in chi non è autosufficiente. Lo capisco in chi ha difficoltà economiche, lavorative, di apprendimento scolastico, di inserimento sociale. Purtroppo troppo spesso queste categorie di persone sperimentano un solitudine imposta, passiva.
Condividere è fondamentale per una civiltà e obbligatorio per noi cristiani, ma quando semplicemente non ci sono difficoltà serie, che c’è di male a prendere una sedia e a guardare il mare, soli.
Depresso? Triste? Turbato? No! Solo.
Non si tratta semplicemente di staccare la spina ogni tanto, ma di ritrovare se stessi, di riprendere possesso di ciò che realmente siamo, di ciò che è più intimo a noi stessi e che spesso dimentichiamo presi dalla continua corsa della vita. Si tratta di fare una visita all’anima. Abbiamo bisogno di ricordare chi siamo: così sapremo amare ed essere felici.
Diceva Osho Rajneesh, un filosofo indiano:

La capacità di essere soli è la capacità di amare. Potrà sembrarti paradossale, ma non lo è. È una verità esistenziale, solo le persone in grado di essere sole sono capaci di amare, di condividere, di immergersi nell’essenza più intima dell’altra persona, senza possederla, senza diventare dipendente dall’altro, senza ridurlo a un oggetto, e senza esserne assuefatto.

Penso ad un violinista, o un pianista, che affida allo strumento i suoi pensieri, lasciandosi andare, liberandosi. Ne nasce una musica nuova, fuori dai pentagrammi dell’ordinarietà, della società e delle etichette comuni. Ognuno di noi sa suonare la propria vita come un assolo ma questo non significa che, se incontra un altro musicista, non si godrà la possibilità di stare insieme e di creare un’armonia nuova.

Forse questo riflessione è stata dettata anche dal fatto che, fondamentalmente, la solitudine è una specie di deformazione professionale per noi preti.
Pure per quelli che, come me, hanno la possibilità di vivere in una comunità parrocchiale, quando a sera arriva il momento di aprire la porta della canonica, non trovi nessuno ad attenderti, a consolarti o che ti chiede: “che hai fatto oggi?”. Ma noi, e non solo i preti, questo vuoto, se così lo si può chiamare, lo colmiamo nella preghiera a Dio. A quel Dio che non ci lascia mai soli, ma che è più facile incontrare quando si è soli.

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.

Emily Dickinson

Posted by:don Ivan Licinio

Classe 1983, sacerdote della Prelatura territoriale di Pompei dal 2011. Attualmente Vice Rettore del Pontificio Santuario della Beata Maria Vergine del Santo Rosario e Incaricato del Servizio per la Pastorale Giovanile. Autore di diverse pubblicazioni, il mio ultimo libro è "Se anche la fede è tra le Stranger Things" - Una serie TV per ogni stagione della gioventù, edito da Effatà editrice.

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